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Donne-ascete buddhiste e cristiane
di Carla Gianotti
(in BUDDHISM Magazine. Rivista dell’Unione Buddhista Italiana, autunno 2009, pp. 44-47)
Come è noto, esistono particolari stereotipi di genere che abitano le culture, paradigmi accreditati dalla ‘norma’ androcentrica dominante che ora si comincia a considerare non più, come è stato per lungo tempo, fenomeni atemporali e astorici, cioè inamovibili. Uno degli stereotipi ancora molto diffuso e autorevole è quello che considera la dimensione religiosa quale territorio privilegiato del maschile. Diventa allora auspicabile cominciare a riconoscere sia la parzialità della storia religiosa sin qui documentata (per molti versi coniugata soprattutto al maschile), sia la parzialità stessa dell’esperienza religiosa maschile. Perché parlare e scrivere del divino sotto qualsivoglia forma è parlare e scrivere di una esperienza del divino di uomini e donne (e ovviamente non solo), di una esperienza dunque non riconducibile a un supposto ‘neutro esperienziale’ così come è accaduto per lungo tempo.
E’ forse per questo che in questi ultimi decenni la ricerca spirituale delle donne è diventata anche e soprattutto ricerca di luoghi possibili di genealogia religiosa e spirituale, ricerca di autorevoli modelli spirituali femminili capaci di fecondare l’immaginario simbolico di riferimento. Sia come studiosa di buddhismo che come praticante buddhista mi dedico da anni allo studio di figure femminili – terrene, divine o archetipiche – della tradizione buddhista indo-tibetana, secondo una visione di equilibrio di genere e di conciliazione di genere. Il mio ultimo lavoro, intitolato Jo mo. Donne e realizzazione spirituale in Tibet[1] è dedicato a ventiquattro ascete tibetane dell’XI–XII sec. chiamate jo mo (venerabili’), discepole tutte di un grande maestro indiano di nome Dam pa. Le agiografie di queste ventiquattro venerabili ci consegnano memoria di una esperienza impervia, difficile e quanto mai fertile di realizzazioni al tempo stesso, un itinerario ascetico sì tutta tibetano, ma che presenta inconfondibili segni di sorellanza con quella di altre donne-ascete, lontane in senso temporale, geografico e religioso, ascete anche queste ancora poco note e che lo straordinario lavoro di passione religiosa di Lisa Cremaschi, monaca di Bose, ha portato da poco alla luce.[2]
Perchè se le jo mo tibetane del nostro testo conducono una vita ascetica senza compromessi, diritta, preferendo luoghi appartati e ardui dove abbracciare la solitudine delle montagne, le donne del deserto scelgono allo stesso modo il deserto come terra di solitudine (o altri luoghi ‘al margine’ di città o villaggi).[3] E se le jo mo vivono a volte la loro condizione di religiose buddhiste nella casa paterna (un’ascesi domestica dettata da ragioni economiche e sociali),[4] anche le donne cristiane del deserto si presentano in taluni casi come monache ‘domestiche’ sotto il tetto paterno.[5]
A volte, poi, il nascondimento sociale delle ascete avviene per dissimulazione: così la ventitreesima jo mo che <<… Se ne stava in disparte e, pur avendo la parola, praticava come fosse muta>>,[6] mantenendo segreto il suo status e la monaca cristiana senza nome di Ermopoli che, vestita di stracci, sapeva giocare la commedia dell’ubriaca.[7]
Ma molti altri ancora sono i ‘segni di genere’ che tra loro spartiscono queste straordinarie ascete buddhiste e cristiane: così la loro minoranza numerica rispetto alle esperienza degli asceti; così la loro rinuncia, in taluni casi, al ruolo materno e l’abbandono dei figli; così l’esercizio di forme embrionali di autorità spirituale in cerchie di devote discepole; così il riconoscimento pubblico degli alti conseguimenti spirituali ottenuti solo al momento della loro dipartita, attraverso miracoli e prodigi; così la fluidità di termini, imprecisi e talvolta ambigui, per indicare il loro status religioso.
Soprattutto, le donne-ascete vivono spesso un’ascesi silente, afona, e questo per un duplice motivo. In primo luogo, la memoria della loro esistenza ci viene tramandata attraverso parole maschili: il testo relativo alle storie delle ventiquattro jo mo, inserito nell’agiografia del maestro Dam pa, quale elogio – neppure troppo implicito – del suo insegnamento, venne infatti compilato dal discepolo di quello, Kun dga’; allo stesso modo anche per le donne del deserto si tratta di testi agiografici redatti da uomini di fede, di una parola cioè di uomini sulle donne. In secondo luogo, poi, se rarissimi sono i casi in cui una donna del deserto parli o scriva di sé in prima persona, allo stesso modo anche delle ventiquattro venerabili tibetane l’unica voce a noi pervenuta è quella della seconda jo mo, ricordata nel testo per il suo ripetere ininterrotto << Il ladro sta arrivando! Il ladro sta arrivando!>>, quasi un mantra praticato a memoria della certezza della morte e dell’imprevedibilità della sua venuta.[8]
C. GIANOTTI, Jo mo. Donne e realizzazione spirituale in Tibet, Astrolabio Ubaldini, Roma 2020. ↑
Detti e Fatti delle Donne del Deserto, a cura di Lisa Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano 2018. ↑
Idem, p. 25. ↑
C. GIANOTTI, op. cit., pp. 71 e sg. ↑
Detti e Fatti delle Donne del Deserto, op. cit., p. 170. ↑
C. GIANOTTI, op. cit., pp. 151 e sg. ↑
Detti e Fatti delle Donne del Deserto, op. cit., p. 131 e sg. ↑
C. GIANOTTI, op. cit., pp. 74 e sg. Anche della donna del deserto a nome Fabiola si legge di come questa <<…fosse sempre sul punto di partire e dunque, poiché si teneva sempre pronta, la morte non la colse impreparata>> (in Detti e Fatti delle Donne del Deserto, op. cit., p. 252). ↑