Per Amore del Risveglio
17 Marzo 2024Kustiani L’evoluzione del femminile nel concetto di Mara
17 Marzo 2024Dialogo tra Dharma e Antropologia
di Maria Antonietta Sgambaro
Contributo al laboratorio IUAV sulla progettazione: l’esser-ci in un Centro di Dharma
L’assenza del sé
Ciò che si confuta generalmente nel buddhismo è la “realtà di vera esistenza”[1] ovvero una realtà non in relazione, indipendente da altro, permanente, riconoscendo che la realtà convenzionale è transitoria, che la realtà convenzionale produce effetti e che noi tutti li sperimentiamo.
Diverse tradizioni buddiste mettono in risalto “l’assenza del sé della persona e l’assenza del sé dei fenomeni”[2]. Questa assenza del sé vuole essere un invito a riflettere sull’oggetto di confutazione che innanzitutto è la realtà di vera esistenza – della persona e dei fenomeni – ma è anche un antidoto all’abitudine di formulare concezioni o opinioni universalizzanti, egocentriche ed autoreferenziali di noi stessi come della realtà che ci circonda. Rimuovere questa rete di concezioni indica, a livello di una coscienza soggettiva, il processo di compimento degli abbandoni di modi di pensare afflitti dall’ignoranza.
Il sé e il pensiero del fuori
La centralità delle scuole filosofiche buddiste nella pratica quotidiana, implica che si osservi, che si rifletta e si famigliarizzi in un processo di consapevolezza, per cogliere, tra l’altro, quell’abitudine di aderire alle opinioni, afferrandole e appiattendoci su di esse proprio come se fossero veramente esistenti.
L’opportunità che si presenta negli studi buddisti è quella di usufruire di una mappa di insegnamenti e di un logos (il sillogismo tibetano) orientativi per guardare dentro a noi stessi, al modo in cui pensiamo, che può anche essere una mappa per osservare i sistemi di significato o di valore dei gruppi e delle società.
Se il guardarsi dentro è un lavoro d’introspezione psicologica, il pensiero del fuori è il pensiero antropologico della relazione.
Il mio
In quanto si formano sui costumi, sulle categorie di senso o di valore in cui si riconoscono gruppi o società, le acquisizioni culturali non sono solo personali ma anche collettive. Le mie acquisizioni di senso, “il mio”[3] bagaglio informativo anche specialistico, che è pur sempre una raccolta transitoria, mi conduce a sopravvalutazioni oppure a sottostimare punti vista aderendo a giudizi in modo finale con chiusure che in automatico escludono tutti gli altri, che siano concetti ma anche tradizioni altre.
Ci sono ovviamente esponenti della cultura laica critici verso definizioni universali sul modo di stare al mondo, l’antropologo si propone di spostare, decentrare, de-individualizzare grazie ad aperture successive nella prospettiva, più precisamente, valorizza la pluralità tra culture, rompe i presupposti ontologici del pensiero identitario volto alla subsidence, al cedimento di una cultura, oppure al sovrapporsi oppure al fondersi delle culture in un unico pensiero identitario.
Lo specchio infranto
Il fenomeno urbano, la città, la mobilità delle persone, la circolazione delle merci e dei capitali, mettono altresì in circolo orizzonti culturali estremamente diversificati. Se sento che, da queste ravvicinate restituzioni che vanno sempre più azzerando le distanze, la mia identità non mi definisce completamente allora metto in atto un processo di domanda.
Il filosofo Kwame Antony Appiah[4] sostiene che le culture possono coabitare pacificamente pur senza condividere un sistema omogeneo di valori e soprattutto senza giungere ad un accordo finale.
Citando sir Richard Francis Burton, cosmopolita nato nel 1821, conoscitore, tra l’atro, di 39 lingue, Appiah scrive in “Cosmopolitismo, l’Etica in un Mondo di Estranei”:
“Tutte le fedi sono false, tutte le fedi sono vere:
la verità è lo specchio infranto, disperso in miriadi di frammenti;
e ogniuno crede che il suo piccolo frammento possieda tutto.”
Allo specchio infranto Appiah aggiunge il riflesso di un’etica, a cui Burton, in un’epoca di primati di esplorazioni geografiche e di culture, non pare fosse molto interessato tanto da sembrare misantropo.
L’esempio dello specchio infranto potrebbe essere la rappresentazione dell’assenza di realtà di vera esistenza ma anche dell’assenza di “esistenza intrinseca”[5] dell’io, del mio e anche dei fenomeni.
Un modo di dire africano ricorda che il mio punto di vista è il punto di vista di un solo punto! Un antidoto all’egocentrismo e al sovrastimare o fenomeni.
l’esser-ci di questo specchio infranto, è un esserci a partire dal nome, benché volto a valorizzare l’esperienza personale e collettiva, dove non è rilevante – più di tanto – definire un’identità attraverso categorie come la nazionalità, la tradizione, la religione, la professione, il titolo di studio ecc.
Potrebbe non essere più – di molto aiuto – pensare per fattispecie generali, tanto meno per concetti universalizzanti, piuttosto mi metto in gioco rispetto a quel particolare che incontro, con cui entro in contato, nella città mondo.
Metto in moto un processo di domanda dove la città mondo è il luogo dei flussi e riflussi, il luogo del va e vieni, con scambi mercantili di beni anche intangibili, finanziari e comunicativi, scambi di vite, scambi di aspirazioni e di luoghi dove realizzare i propri sogni.
Non si tratta di riproporre la vera esistenza dissimulata sotto un altro nome, ma intenderemmo valorizzare l’esperienza del come stare al mondo pacificamente assieme agli altri.
Non solo siamo interconnessi e interdipendenti ma ancor più, come afferma il buddhismo, siamo immersi in un “sorgere dipendente”, nella legge di causa effetto, nella dipendenza da cause e condizioni, per cui diventa un controsenso quell’aderire completamente dalla propria parte, al proprio versante di mare.
Il sorgere dipendente potrebbe essere l’antidoto per abbandonare il sistema che pensa in termini di scontro di civiltà andando ben oltre al concetto di mescolanza culturale, di cui mai si conoscono gli esiti, esiti che si pretende divengano prevedibili.
Per trovare nuove vie di comprensione, vale la pena stare nel tempo dell’incertezza, non quello della previsione.
La topografia leggendaria dei Vangeli
A prescindere da ciò che accade in sistemi violenti, sistemi univoci di classificazione degli individui (che escludono o malamente tollerano gli altri) che a volte sono totalitarismi con la veste democratica, il libero processo di incontro, la libera circolazione delle persone, può reggere la contro-fatica di Ulisse che tenta di chiudere le sponde, volta a stabilizzare gli individui nella terra natia e rendere sedentari pellegrini della conoscenza e i migranti?
Esiste per gli esseri umani una meta che sia un processo d’incontro?
Sostiene il filosofo e sociologo Maurice Halbwachs[6] nel libro La topografia leggendaria dei Vangeli in Terrasanta, che il processo di incontro diviene una condivisione, una mescolanza culturale, un processo che cammina con le proprie gambe rispecchiandosi in altri per incontrarsi nella contemporaneità. La topografia leggendaria dei Vangeli è una trasposizione sul territorio – fatta in virtù di una tradizione religiosa – di luoghi di cui, in realtà, non si hanno precise informazioni storico geografiche.
Ebrei, musulmani e cristiani hanno infatti costruito nel tempo la topografia di Gerusalemme a seconda delle singole tradizioni.
Halbwachs sostiene che Gerusalemme non riesce a rivendicare una tradizione pagana, cara agli studiosi, che si fonda sulla presenza del tempio di Afrodite e della Triade Capitolina. L’autore se lo spiega in quanto gli studiosi non sono un’etnia o una religione e non costituiscono una memoria che agisce in prospettiva reinterpretando il presente.
Per Halbwachs un moltiplicarsi delle culture e, la condivisione, affiorerebbero come conseguenza di una memoria fortemente ricostruttiva sulla quale ci si rispecchia. Sarebbe in grado di avere questa forza ricostruttiva e re-interpretativa contemporanea l’investitura di Carlo, prima come principe del Galles e, poi, come re d’Inghilterra, perfino rispetto ad etnie fortemente eterogenee. Attraverso lo scarto di una pretesa intellettuale, cara solo agli studiosi (che rappresentano la tradizione pagana), che pur ha un fondamento storico, la condivisione si muoverebbe solo in ciò che non è percepito come estraneo alla tradizione.
La sovra-reputazione dell’epica.
Tutti noi siamo espressione di centri di interesse diversificati, siamo portatrici e portatori di una rivoluzione pacifica e della sua tracciabilità che si costruisce nell’esperienza e nella pratica quotidiana a partire dal nome e dai concetti. Siamo dotati di un pensiero che si muove in certe deduzioni e controdeduzioni, abbiamo il senso del dubbio e una gradualità di consapevolezza ma questo non basta. Se provassimo allora ad eliminare l’epica con cui si tramanda la memoria di una tradizione, andremmo a narrare una storia che si valorizza perché manca il finale del film, dove la ricompensa dei vittoriosi non avrà importanza, in quanto tutto importa mentre accade e in quanto desta una confluenza e un sorgere dipendente.
La scuola filosofica buddhista Prasangika[7], afferma che noi siamo “a partire dal nome” e questo significa che non sappiamo dove sia l’io (è nel corpo, nella mente, nei sensi o in tutto questo?) che è sempre un partire dalla consapevolezza di non rendere assoluto il proprio parziale angolo del mondo. Da qui c’è una ri-partenza quotidiana che assume la qualità aperta del mettersi in gioco curandosi del sorgere dipendente.
L’avvenimenzialità, fatti ed eventi, modi di vita, le espressioni architettoniche e così via sono un mero scatto fotografico come specchio di qualcosa che sta e rimane su qualcosa che muta. Con ciò auspicheremmo non solo consapevolezza della contemporaneità, consapevolezza dei bisogni e impulsi singoli o collettivi di cui l’antropologo apre via via una veduta prospettica, ma anche la consapevolezza della memoria collettiva verso le generazioni future. Abbiamo una doppia rappresentazione della realtà sostiene il buddhismo: la “realtà convenzionale” dell’esperienza e la “realtà ultima” che è il “sorgere dipendente”. Abbiamo una manifestazione duplice della realtà che ha una stessa natura. Così se vi è una realtà ultima, ossia una saggezza che ci invita ad una responsabilità (ad esempio per le generazioni future) è perché c’è una realtà convenzionale che chiama a riflettere sul come esser-ci, ad esaminare gli effetti che inneschiamo e, aggiungerebbe l’antropologo, sostenendo una pluralità di interessi per le generazioni di domani.
L’auspicio del filologo e classicista Maurizio Bettini (che si occupa di ermeneutica antropologica) è di voler valutare quanto più semplice sarebbe se le tradizioni, non fossero verticali come radici ma orizzontali come confluenze. Vale la pena un richiamo alla saggezza, in questo caso la responsabilità in cui si scelga: per le generazioni a venire, quantomeno tradizioni sostenibili, aperte, attivamente tolleranti e quindi problematiche per scongiurare cittadini cattivi che si faranno del male fra loro e faranno del male agli altri.
La problematicità della soglia
Qualunque fatto del quotidiano è occasione di pratica meditativa e se dovessi configurare un luogo architettonico in cui centri di interesse diversificati si incontrano, guarderei a preservarli per confermare il loro esser-ci a partire dal nome.
In che modo possiamo stare assieme? Lo spazio e il tempo forse lo stiamo affabulando e non c’è molta consapevolezza.
F. Laplantine[8] sostiene che moltiplicare le individualizzazioni, le identità, è nell’ordine del possibile. Ciò permette di preservale, anche se questo scompiglia le carte e sconcerta, dato che, la problematicità crea l’incertezza che non si vorrebbe avere. Sono infatti più gestibili i sistemi univoci piuttosto che sistemi molteplici!
A questo punto, al posto di enfatizzare le radici culturali, faremmo entrare in campo il tema del limen, della soglia, con la possibilità empirica della confluenza, una contigua apertura che dalle individualizzazioni dei centri di interesse conduce al loro mettersi in contatto. D’altra parte, questo è un modo di stare assieme anche all’interno di una medesima società, che sempre essa si compone di strati diversificati per età, genere ecc. e dunque di diversità.
La problematicità della soglia è il portato di ricchezza, è il pensiero del fuori e della relazione verso i modi plurali di stare al mondo, che non può essere taciuto dato che l’antropologia si occupa di dinamiche socioculturali, tra esse interconnesse, e non della separazione.
A Terdom nel Tibet, località con terme a circa 4.500m di altitudine, dove sorge un monastero femminile, le terme sono situate all’aperto nel centro del villaggio e sono delimitate con muretti di pietra.
Per le donne e gli uomini, i bagni delle terme sono luoghi separati con un’entrata distinta.
Le terme a pianta circolare circoscrivono l’area dedicata alle donne e, ai maschi, è destinata l’area con forma quadrata o rettangolare. Senonché, subito al di là dei muretti delle terme, scorre impetuoso il torrente di acqua gelida che scende dalla montagna lasciando imperturbata l’acqua termale e il suo calore.
Questa suggestione tra due acque, la gelida e la calda, la loro separatezza di circostanza, che protegge dallo scorrere problematico giusto al di là del naso dei bagnanti, mi è cara, anche per la presenza delle monache che, a Terdom, mi hanno accompagnata tenendomi per mano lungo un breve tratto di sentiero. Ricordo una succinta comunicazione fatta di gesti e sorrisi, ci siamo dette che una foto di loro non potevo prenderla, che la monaca anziana non avrebbe gradito e, siccome ella ci sentiva molto poco, sarebbe stato difficile scattare la foto senza scontentarla perché la comunicazione verbale era limitata, non dai nostri idiomi diversi ma, da un’armonia che non poteva superare la nostra diversità e giungere direttamente a quell’organo di percezione del suono e alla coscienza uditiva dell’anziana.
Per un centro di Dharma
Nel Centro di Dharma, il mio immaginario configura una stanza fatta dalla compresenza di spazi delimitati e destinati al femminile e al maschile in modo distinto. Il circolo e il riquadro delle terme fungono ora da filtro, da paravento tra monache e monaci in questo ampio ambiente.
Il suggerimento è di ricavare dei perimetri interni che concedano delle pause, di raccogliersi in sé a chi, nel dialogo e nel conflitto, non si trova in posizione di forza paritetica.
Per l’antropologa Mara Mabilia la potenziale mancanza di un tavolo equanime vuol significare che:
«le differenze di genere, non solo biologiche, di fatto si esplicano in molti modi e ruoli e sovente si esplicano in uno scarto di valore, non di qualità. Siamo sempre intrappolati nei giudizi del più e del meno, ma siccome la diversità è ricchezza, banalmente non si può fare una graduatoria»[9].
Penso ad una stanza ampia che includa l’esser-ci delle due distinzioni di genere, che sia altresì un’apertura verso lo scorrere del fiume, lo scorrere delle tradizioni, delle opinioni e della cultura, che permetta il mettersi in contatto tra portatori di interessi diversificati, come gli uni con le altre.
Se questo scorrimento di confluenze si rivela nell’ordine del problematico, probabilmente è pure a questa problematicità a cui pensava il Buddha istituendo il Sangha che è costituito dai 4 gruppi: i monaci e le monache e, i laici e laiche, dove il problematico sarebbe non solo possibile ma nell’ordine della saggezza.
Il Sangha, una circolarità che via via dimentica l’origine
Il Sangha è tradizionalmente il consesso degli esseri Arya, persone con speciali realizzazioni, ovvero monaci e monache, laici e laiche che più di altri sono maestri di Dharma. Nella contemporaneità il Sangha diviene più semplicemente il consesso di monaci e monache pienamente ordinati (oltre ad essere composto da laici e laiche).
Considerato il qualificato apporto, si fatica a comprendere come mai il Sangha non venga reso fattivo nei Centri di Dharma o in monasteri occidentali e, quindi, perché le monache buddhiste non possano essere pienamente ordinate, pienamente qualificate, parimenti ai monaci.
Si tratta di raccogliere un lascito degli insegnamenti del Buddha e di trasmetterlo all’interno dei quattro gruppi di cui il Sangha è composto attraverso una circolarità che, via via entrando nella corrente relazionale, dimentica l’origine e la separatezza di ciò che si è conquistato, a beneficio delle generazioni a venire.
Si tratta di un esplicito invito a portare le monache assieme ai monaci all’interno del Sangha, poiché, nella pratica buddhista, ci si rifugia nel Sangha, unitamente al Buddha e al Dharma, per proseguire un sentiero verso il risveglio a beneficio di tutti gli esseri.
JEFFREY HOPKINS <<Meditazioni sulla Vacuità>>, Je Tzong Khapa Edizioni ↑
JEFFREY HOPKINS <<Meditazioni sulla Vacuità>>, Je Tzong Khapa Edizioni. ↑
JEFFREY HOPKINS <<Meditazioni sulla Vacuità>>, Je Tzong Khapa Edizioni. ↑
KWAME ANTONY APPIAH, <<Cosmopolitismo>>, Editori Laterza ↑
JEFFREY HOPKINS <<Meditazioni sulla Vacuità>>, Je Tzong Khapa Edizioni. ↑
MAURICE HALBWACHS <<La topografia leggendaria dei Vangeli in Terrasanta>> 1941 ↑
JEFFREY HOPKINS <<Meditazioni sulla Vacuità>>, Je Tzong Khapa Edizioni. ↑
F. LAPLANTINE <<Identità e Meticciato>>, Elèuthera 2004-11 ↑
Mara Mabilia antropologa, lezioni al Master di Studi Interculturali PD. ↑