Il Tibet e i tesori della mente
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Conferenza Sakyadita International, giugno 2019 – Australia –
VEN. KARMA LEKSHE TSOMO
La disuguaglianza di genere è difficile da concepire in una tradizione che proclama l’illuminazione per tutti.
Buddha, interrogato dal suo fedele assistente Ananda circa l’illuminazione femminile, assicurò che le donne avevano lo stesso potenziale degli uomini per ottenere i frutti del sentiero, inclusa la liberazione, la realizzazione finale. Questa affermazione definitiva avrebbe dovuto essere sufficiente per spianare la strada all’uguaglianza femminile, ma la realtà sociale raramente corrisponde agli ideali teorici.
Anche se innumerevoli donne hanno riferito di aver raggiunto l’obiettivo finale della liberazione diventando Arhat, lo status delle donne nelle società buddhiste è stato costantemente subordinato. Nascere maschio eleva automaticamente un ragazzo allo status di prima classe, mentre nascere femmina relega definitivamente una ragazza allo status di seconda classe.
La ricchezza, la nascita aristocratica o un matrimonio vantaggioso, possono mitigare le circostanze, ma il modello generale dello status sociale rimane in prima istanza e sebbene le società buddhiste possano essere state nel complesso più egualitarie rispetto ad altre, la netta discriminazione fra maschile e femminile persiste ancora oggi.
La subordinazione delle donne trova la sua maggiore evidenza nel Sangha buddhista, la comunità monastica.
Dopo qualche esitazione, forse dettata dalla sua preoccupazione per la sicurezza delle donne, Buddha diede loro l’occasione di vivere uno stile di vita rinunciatario.
Secondo la storia, però, non era un’opportunità paritaria con il Sangha monastico maschile. Si insegna che la Madre adottiva di Buddha, Mahapajapati, che divenne la prima Bhikshuni, una monaca pienamente ordinata, dovette osservare otto regole in aggiunta ai voti maschili, voti che continuano a dover essere osservati ancora oggi e che rendono le monache dipendenti dai monaci.
Sebbene il linguaggio dei testi mostri come questi passaggi siano stati aggiunti molto più tardi, lo status subordinato della monaca e la previsione che l’ammissione delle monache avrebbe diminuito la durata degli insegnamenti del Buddha, hanno contribuito alla percezione dell’inferiorità delle donne.
Questa previsione è stata modificata nel tempo, ma il pregiudizio è sopravvissuto.
La situazione delle monache oggi varia a seconda delle tradizioni. Nelle tradizioni Theravada dell’Asia meridionale e sud-orientale, il lignaggio della piena ordinazione delle donne terminò intorno all’undicesimo secolo e molti seguaci ritengono non possa essere ripristinato. Le donne che rinunciano alla vita famigliare osservano otto, nove o dieci precetti, incluso il nubilato, ma non sono considerate pari al Sangha monastico. Fino a poco tempo fa ricevevano molta meno istruzione e sostegno rispetto ai monaci.
Nelle tradizioni Mahayana dell’Asia Orientale, il lignaggio della piena ordinazione delle Bhikshuni fu portato dallo Shri Lanka alla Cina nel quinto secolo e fiorisce oggi in Cina, Corea, Taiwan, Vietnam e nella diaspora cinese. Le monache sono ben sostenute dalla comunità laica e hanno opportunità di istruzione pari a quella dei monaci.
Il lignaggio delle Bhikshuni non è mai stato stabilito nella tradizione Vajrayana dell’Asia centrale, ma le donne possono ricevere qui l’ordinazione di monaca novizia e sono considerate parte del Sangha monastico.
Negli ultimi tre decenni, le monache hanno lavorato duramente per migliorare le loro condizioni di vita e le opportunità educative.
Le posizioni su come rimediare allo squilibrio di genere, sia per le monache che per le laiche, differiscono molto a seconda della situazione.
Per quelle donne buddhiste delle aree remote dell’Asia, la massima priorità è una migliore alimentazione, mentre per le donne delle aree urbane le preoccupazioni riguardano la parità di genere e il modo di destreggiarsi tra lavoro, famiglia e pratica spirituale. Ovunque le donne sono tormentate da molestie sessuali e dalla disparità di trattamento. Molti buddhisti ritengono che sia giunto il momento di dare una nuova interpretazione ai testi e agli insegnamenti buddhisti che affrontano le diversità di genere. Con la dichiarazione di Buddha sull’uguale potenziale di liberazione delle donne, le cose iniziarono molto bene. Dopo la sua scomparsa, tuttavia, i modelli di dominio maschile nelle società buddhiste, tornarono a essere la norma.
La trama si infittì secoli dopo la morte del Buddha, con la comparsa dei testi sulla Perfezione della Saggezza (Prajnaparamita ). Questi testi sostituiscono all’obiettivo della liberazione dall’esistenza ciclica, il perfetto risveglio di un Buddha: un salto quantico, per l’impegno che l’aspirante bodhisattva deve porre nella raccolta di meriti e saggezza per tre innumerevoli eoni. Tra i trentadue “segni speciali” di un Buddha, il più sorprendente per molti buddhisti moderni è il “pene ricoperto da una guaina, come un cavallo”.
Questo segno è stato interpretato come un’evidenza che un Buddha completamente risvegliato debba essere necessariamente maschio. Non è chiaro tuttavia quale possa essere esattamente il vantaggio di una simile caratteristica.
I Buddha vengono mostrati con i genitali maschili perchè si presume che gli uomini siano superiori alle donne? Il marchio attesta che i Buddha hanno sublimato il desiderio sessuale? Gli uomini sono più inclini delle donne a raggiungere lo stato del pieno risveglio, perchè hanno più difficoltà a contenere il loro desiderio sessuale? O la presunzione di mascolinità è semplicemente un’altra mossa patriarcale per mantenere la superiorità maschile? Oltre a rivedere i testi e gli insegnamenti buddhisti, è tempo di riesaminare le istituzioni buddhiste, che sono quasi tutte a guida maschile e di rivalutare le realtà sociali buddhiste.
Piuttosto che ingoiare allegramente la considerazione che tutti sono uguali nel buddhismo o credere ingenuamente che la diversità di genere sia irrilevante per il Risveglio, i buddhisti devono rivalutare il modo in cui le donne vengono trattate.
Ad esempio, ancora oggi nella tradizione tibetana, un bambino di tre anni può essere onorato con il titolo di “Lama” (che significa Maestro) mentre una monaca settantenne, altamente istruita, viene tipicamente sminuita con il titolo di “Ani” (che significa zia).
Le donazioni, anche da parte di donne e persino di società occidentali presubilmente illuminate, sono abitualmente destinate principalmente agli insegnanti uomini e ai monasteri di monaci. Gli atteggiamenti discriminatori sono stati inconsciamente interiorizzati dalle persone in modo dannoso per loro stessi e per gli altri.
I buddhisti di oggi devono prendere atto di questo fatto e trasformare le loro tendenze abituali, abbracciando ugualmente tutti gli esseri con compassione. Nella tradizione buddhista, la preoccupazione essenziale per le donne, soprattutto monache, è quella di ottenere il risveglio di un Buddha. Il fatto che le donne si stiano impegnando per raggiungere una piena rappresentanza nelle tradizioni buddhiste e stiano esprimendo apertamente le loro aspirazioni, riflette la loro compassionevole preoccupazione per il benessere di tutte le vite senzienti.