Dialogo tra Dharma e Antropologia
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17 Marzo 2024L’evoluzione del femminile nel concetto di Māra: Un’analisi di genere
di Kustiani, pp. 78-81
(titolo originale: The Evolution of the Feminine in the Concept of Māra: A Gender Analysis, in
18th SAKYADHITA CONFERENCE, June 23-27, 2023-Seoul, South Corea)
Traduzione dall’inglese a cura di Sakyadhita Italia
In India l’idea dell’esistenza degli dei era accettata da tutti. Uno degli dei era Māra, il dio della morte. Māra è presente da molto tempo nelle credenze, nei miti e nella demonologia indiana, e nei testi vedici. Come scrive Michael D. Nichol, “Difatti, data la sua presenza trasversale nelle diverse letterature buddhiste e nella cultura materiale dell’India settentrionale, centrale e meridionale, potremmo sostenere che Māra sia una divinità buddhista ‘pan-Indiana’”.[1]
In molti testi buddhisti, Māra ha la capacità di trasmigrare nella forma fisica di una donna. Il Padhāna Sutta racconta come Māra abbia esercitato il suo potere seduttivo femminile sul Principe Siddhartha sulle rive del fiume Nerañjāra. Il Māradhītu Sutta descrive il tentativo di seduzione del Buddha, dopo la sua illuminazione, da parte delle tre figlie di Māra: Tanhā (la bramosia), Arati (la noia) e Ragā (il desiderio sessuale). Questo episodio dimostra la capacità di Māra di manifestarsi in forma femminile.
In un discorso nell’Ekanipata dell’Anguttara Nikāya, però, si dice che una donna non può diventare Māra. Questo riferimento rappresenta una contraddizione. Se una donna non può diventare Māra, come può Māra manifestarsi nella forma fisica di una donna, una trasformazione che invece viene descritta in molti Sutta? Si può quindi sostenere che ci sia un’evoluzione di idee che riguardano l’emergere del femminile nel concetto di Māra? Questo articolo si propone di affrontare tale quesito.
Māra nelle credenze indiane prima del Buddhismo
Per capire meglio il significato della parola Māra, possiamo prima esaminare la traduzione del termine nei vari dizionari buddhisti. L’Encyclopaedia of Buddhism (vol. 6) spiega che la parola Māra deriva dalla radice “Mr” nella terminologia vedica, che significa morte, uccisione, distruzione, superamento della morte. A volte il termine Māra viene applicato all’esistenza tout court, o al regno della rinascita, in contrapposizione a nibbāna[2].
Nella mitologia vedica, Māra viene nominato come il Signore Yama, il dio della morte. Mentre nella cosmologia buddhista il Signore Yama è la divinità del kāmaloka, che ha il compito di interrogare tutti gli esseri che nascono negli inferni (niraya)[3]. Nella cosmologia buddhista Yama non ha la facoltà di determinare la durata o l’intensità della punizione riservata agli esseri che rinascono nell’inferno. Nella tradizione vedica e nella cosmologia buddhista ci sono quindi due interpretazioni diverse di Yama: per il Buddhismo Yama è una divinità del kāmaloka, il regno del desiderio, un regno inferiore. Chiarita questa differenza, possiamo concludere che nella tradizione vedica il termine Māra si riferisce a una persona o una figura, mentre nel Buddhismo viene più spesso usato come aggettivo, per descrivere uno stato mentale o una condizione di sofferenza che impedisce la realizzazione/l’illuminazione.
Come aggettivo, Māra non ha genere: non è né maschio né femmina, né maschile né femminile. Alcuni commentatori sostengono che la concezione di Māra si sia quindi evoluta, per allineare le credenze popolari con i principi del Buddhismo. Uno di questi ha scritto: “Bisogna osservare che queste associazioni vediche furono intenzionalmente lasciate nel sottofondo, mentre al nuovo dio della morte e del male, così modellato, fu dato un ruolo molto diverso nella sua nuova forma e in un nuovo contesto.”[4]
La credenza diffusa in un demone o spirito o entità, che ostacola gli sforzi umani per la realizzazione esiste non solo nel Buddhismo ma anche nel Jainismo. È presente nella storia di Jaina Mahavira, il quale cercò la realizzazione/ l’illuminazione ma che fu disturbato da Meghamalin, che si è adoperato in tutti i modi possibili per ostacolare Jaina Mahavira o Parsvhanatha nel percorso verso la realizzazione. Nel Buddhismo il concetto di Māra abbraccia e viene influenzato dal concetto mitologico di Māra quale titolo per il dio Yama, e anche dal concetto di spiriti molesti del Jainismo…. È importante notare che “il simbolo di Māra è stato quindi usato come strumento dottrinale per avvertire i discepoli della necessità di essere costanti nei loro sforzi.”[5]
Māra nel primo periodo del Buddhismo e la sua evoluzione
Il Māra Samyutta del Samyutta Nikāya descrive le attività e le trasformazioni delle varie forme di Māra. In questo samyutta, ci sono 25 sutta che offrono informazioni sull’incontro tra Māra e il Buddha e alcuni dei suoi discepoli. Il Hatthirājava Sutta di questo samyutta spiega che Māra poteva cambiare forma e diventare un elefante, con delle caratteristiche fisiche straordinarie, per spaventare e terrorizzare il Buddha. Il Subha Sutta, il terzo sutta di questo samyutta, spiega come Māra poteva assumere forme bellissime ma anche forme ripugnanti. Il sutta seguente, il Māratajjanīya Sutta (M.N.I. 331) racconta come il discepolo del Buddha Ariya Moggalana abbia incontrato Māra. In questo episodio, Māra arriva nella pancia di Moggalana. Dopo aver osservato questa incarnazione, Moggalana capisce che Māra era stato suo nipote durante la vita di Buddha Kakusandha. Anche Moggalana rinacque come Māra in quel periodo.
Un altro nikāya che parla di Māra si trova nell’ Ekanipata dell’ Anguttara Nikāya. Questo nipata parla delle diverse qualità mentali, e spiega perché le persone hanno certe qualità mentali. Le qualità mentali buone sono utili per evitare di credere nelle idee sbagliate, ad esempio l’idea che tutto ciò che esiste sia permanente e sia fonte di felicità. La discussione, all’inizio dell’Ekanipata, rivela che questo testo parla della crescita spirituale e degli insegnamenti che portano al progresso spirituale. L’argomento seguente in questo nipata è la cosmologia buddhista: ad esempio, l’impossibilità che un sammasambuddha e un raja cakravartin esistano nello stesso mondo.
Il testo poi cambia argomento in modo repentino, e inizia a discutere di genere e delle differenze tra esseri umani maschi e femmine. Parla dell’incapacità di un certo genere di fare determinate cose, spiegando nello specifico che una donna non può diventare Māra.[6] Questa affermazione nell’Ekanipata arriva direttamente dalla bocca del Buddha, o è stata aggiunta in un secondo momento, quando il Tipitaka è stato trascritto? Non ci sono prove solide che sia stata inserita di seguito, ma dal punto di vista accademico possiamo chiederci perché la discussione delle qualità spirituali viri improvvisamente verso una discussione delle qualità di genere. Dopo aver parlato delle inabilità delle donne, l’Ekanipata torna a discutere di spiritualità, delle azioni non virtuose legate al pensiero (manoduccarita), quelle legate alla parola (vaciduccarita) e quelle legate al comportamento (kāya duccarita) che genereranno dolore e sofferenza, mentre le azioni virtuose hanno il risultato contrario.[7]
Il fatto che una donna non possa diventare Māra è chiaramente indicato nell’Ekanipata del Ańguttara Nikāya. In altre parole, si può dire che le affermazioni sull’impossibilità delle donne di diventare Māra si basino su fonti primarie. Secondo questi dati, non esiste un’incarnazione di Māra in forma femminile, né una sua rappresentazione simbolica in forma femminile. L’incarnazione o la rappresentazione simbolica di una figura femminile come Māra certamente contradicerebbe le affermazioni che troviamo nell’Ekanipata, che negano questa possibilità. Ma in realtà non è così. In diversi testi, sia testi canonici che testi di commentatori, troviamo diverse incarnazioni e simboli di Māra che appaiono in forma femminile.
Nel Māradhita Sutta (il Sutta sulle figlie di Māra), che si trova nel Samyutta Nikāya, possiamo trovare degli elementi a sostegno di questo. Questo sutta fa riferimento alle tre figlie di Māra, cioè Tanhā, Arati e Ragā.[8] Pare che questo sutta abbia influenzato lo sviluppo della scultura e dei dipinti buddhisti, come si può vedere nell’immagine del Principe Siddhartha che lotta per la realizzazione/l’illuminazione e incontra le tre seducenti principesse Māra. In diverse sculture e diversi dipinti, le tre principesse Māra sono raffigurate come figure molto erotiche e sensuali.
Quando torniamo alle affermazioni nell’Ekanipata, notiamo dei concetti contrastanti in due nikāya sulla possibilità o meno per una donna di diventare Māra. Anche se il Māra dell’Ekanipata viene interpretato come un re Māra (Raja Māra), i dubbi rimangono. Ad esempio: come potrebbe un re celibe improvvisamente avere più figlie (le Māradhitā)? Oppure il testo suggerisce che Raja Māra fosse un uomo che aveva una moglie e poi delle figlie umane? Perché la preferenza generale delle famiglie per i figli maschi non compare in questo contesto? In questo caso, sono figlie femmine quelle che hanno davvero a cuore Raja Māra e che combattono per Raja Māra. Questo è un fatto abbastanza inusuale: normalmente i figli maschi sono considerati quelli che aiutano i genitori e alleggeriscono il peso sulle loro spalle. Ma nel caso di Raja Māra, sono le figlie femmine che hanno la capacità di sostenere i genitori.
Un’analisi critica dell’evoluzione del concetto di Māra
In un’analisi di genere, ci sono due questioni su cui riflettere: (1) la qualità di Raja Māra deve essere per forza maschile? E (2) Perché i figli di Māra sono incarnati in figure femminili? Sembra che i concetti delle relazioni sociali (che normalmente danno per scontato che il re o leader sia uomo, mentre le donne reggono il sistema da dietro le quinte) abbiano influenzato anche lo sviluppo del concetto di Māra nella letteratura buddhista. È un’ipotesi interessante, ma non è il punto centrale; queste domande servono solo a stimolare un approfondimento delle questioni di genere nel contesto di Māra.
Mentre leggiamo e cerchiamo di analizzare la visione buddhista del concetto di Māra, dobbiamo tenere in mente il concetto originale che insegnò il Buddha. Un’ipotesi è che, “Il Buddha utilizzò Māra principalmente per mettere in scena il conflitto interiore contro dukkha, ma che altri lo hanno poi portato all’esterno della psiche, fino al punto in cui, nelle sue forme demoniche, Māra diventa un’influenza esterna.”[9] Marasinghe scrive che “tutte le condizioni mondane che sono contrastanti per natura e che ostacolano la realizzazione/l’illuminazione possono essere classificate come Māra.”[10]
Come si può leggere in diversi articoli e nell’introduzione a questo testo, il concetto di Māra si è evoluto, e questa evoluzione è stata condizionata da diversi fattori come la tradizione vedica, la visione Jaina di Māra come seduttrice sulla via dell’illuminazione, e anche il concetto della demonologia in India. L’evoluzione del concetto di Māra necessita quindi di ulteriore studio, soprattutto dal punto di vista di genere. La visione convenzionale del maschile e femminile influenza l’evoluzione del concetto di genere nei diversi periodi.
Questo testo propone diverse evoluzioni:
Per quelli che conoscono Raja Māra come figura maschile e le sue figlie come figure femminili, le analisi di distinzione di genere sono inefficaci. Ma in certi settori della società, questo porterà a una visione generalizzata delle donne come seduttrici Māra. Quando gli uomini hanno delle difficolta, o non riescono a rimanere celibi, o impegnarsi nella via verso l’illuminazione, le donne tendono a essere incolpate in quanto seduttrici Māra. Le distinzioni di genere non possono che essere prese in considerazione.
Michael D. Nichol, Malleable Māra: Buddhism’s “Evil One” in Conversation and Contestation with Vedic Religion, Brahmanism and Hinduism (ProQuest Dissertations Publishing, 2010), 10 ↑
M.M.J. Mārasinghe, Encyclopaedia of Buddhism, vol. 6 (Sri Lanka: Government of Sri Lanka. 1996), 628. ↑
Ibid. ↑
Ibid., 629. ↑
Ibid., 63.. ↑
A??hanameta?, bhikkhave, anavakaso ya? Itthi araha? Assa sammassambuddho. Neta? ?hana? vijjati. ?hananca kho ↑
SN I. 124; Mahanidesa I. 181; Petakopadesa 9. ↑
Benjamin W. McCraw con Kristof Vanhoutte, Purgatory: Philosophical Dimensions (New York: Palgrave Macmillan, 2017), 304. ↑
Mārasinghe, Encyclopaedia of Buddhism, vol. 6, 428. ↑